Challenge Venice – Un Ironman da Spartans.

I nostri portacolori, tutti all’esordio sulla distanza principe del triathlon,  Marco Vanetti, Fausto Ressia, Barbara Mingotti, Roberto Nava e Giorgio Poli hanno tutti conquistato la Finish line. Ecco i loro commenti in chat, su FB o nei propri blog…

Marco Vanetti: Il mio primo triathlon lungo (iron man) sono decisamente soddisfatto

Fausto Ressia: IronME 1.0
Il corpo umano non è progettato per faticare; probabilmente per muoversi, correre anche lunghe distanze ma per una questione di sopravvivenza… Io non vedo sopravvivenza nel volto di un ebete che si sveglia prima del sole per spuntare una sessione programmata in una tabella e magari pure con il sorriso di chi pensa di fare la cosa giusta.
Un caro amico un anno fa mi ha spinto ad intraprendere questo viaggio e da allora ho macinato chilometri, cambiato scarpe, sostituito camere d’aria, ingoiato centinaia di gel… tutto per arrivare alla fatidica gara di domenica ma oggi mi rendo conto che IO l’Iron Man L’HO GIA’ FATTO!
L’ho fatto quando sono arrivato in ritardo in vasca senza costume e ho nuotato a gambe strette con i pantaloncini da tennis. L’ho fatto quando mi sono accorto di avere l’abbonamento di tutte le piscine da Parma a Cesenatico e la doppia borsa sempre in macchina (con i sedili dietro rigorosamente giù pronti ad accogliere la bicicletta). L’ho fatto quando mi sono accorto dopo 30 vasche di non aver premuto bene “Start” sul Garmin, quando mi sono fatto trascinare dal tipo della corsia vicino con la mia stessa brutta abbronzatura ed il numero ancora visibile sul braccio sapendo che stava sudando la mia stessa fatica… L’ho fatto quando ho cercato di dribblare le nuvole in bicicletta per chilometri fino ad esserne completamente circondato e tornare a casa sommerso dal diluvio universale. L’ho fatto quando mi sono sforzato per ore di avanzare il più possibile sulle appendici con la punta della sella conficcata li, pronta a ricordarmi ad ogni buco di quanto fossi idiota. L’ho fatto quando ho calcolato la distanza percorsa da una lumaca a bordo strada ad ogni mia ripetuta in salita, oppure quando ho imparato a memoria i nomi dei primi tre classificati su ogni segmento dei miei percorsi, da Castelletto al Barbotto e San Luca.
L’ho fatto quando i combinati dicevano 150+30 fatti tutti da solo… e pensi, e pensi ma poi i pensieri finiscono e allora li riprendi e li correggi… CORREGGI I PENSIERI C..ZO..
Me ne guardo bene dal parlare della corsa; un giorno posterò la foto delle suole e allora capirete…
Anche il buon Dio è dalla mia parte, da quando ha scoperto che domenica pioverà non mi fa mai mancare un test gara regalandomi pioggia ad ogni uscita…ma sono qui, col sorriso e la giusta serenità di chi è consapevole di aver fatto tutto quello che era giusto fare; non avrò rimpianti e affronterò la mia gara nell’unico modo che conosco ossia seguendo il famoso “IF” che nel mio mondo si traduce in IndaFlow…

Barbara Mingotti: Non ho parole per raccontare la mia felicità .. Felice oltre che per la mia gara e per il fatto che ho fatto la mia impresa anche per voi .. Per chi era qui come supporter e mi/ci ha dedicato la sua giornata.. Per chi da casa ha passato la giornata attaccato al telefono e vi dico che ad ogni controllo soprattutto in bici mi son detta e ora cosa diranno .. Vi ho pensati tutti alle vostre parole che mi avete detto prima della partenza in questi giorni chi telefonandomi e chi con messaggi e chi con video chat.. Un ringraziamento enorme lo dedico in primis a Bibo in quanto come marito mi ha sopportato e poi uno speciale al nostro coach Torre .. E penso che senza di lui non avrei avuto la lucidità di affrontare l’impresa .. Vi voglio bene siete speciali.. Siamo unici belli e bravi! Barbara

Roberto Nava: Sabato sera. Punto la sveglia alle 3:30 di mattina (o di notte, vedete voi). È lì che inizio a chiedermi se tutto questo abbia un senso. E mi accorgo che forse adesso è un po’ troppo tardi. Per chiederselo e per scoprirlo.
Colazione alle 4. Il bus che mi porterà a Venezia, zona dello start della frazione nuoto, parte alle 4:45.
L’atmosfera è già di per sè surreale così, non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro.
Prima di salire sul bus passaggio in zona cambio, sistemo le ultime cose, porto le borracce e le posiziono sulla bici. È tutto pronto, è il mio giorno.
Venezia è una città magica, speciale per me, per tanti motivi. Mi ha dato tanto, mi ha tolto tanto, e io sono qui anche per chiudere qualche conto che avevo in sospeso con Lei.
Attraversare il Ponte della Costituzione con infradito e body da triathlon alle 5 e di mattina, quando l’alba saluta la laguna, aggiunge ulteriore surrealismo a tutta la giornata.
Qui la tensione inizia a salire. Qualche volto tirato, gli occhi di chi sta assaporando la paura ma allo stesso tempo potrebbero affrontare un leone a mani nude.
È ora di mettersi la muta. Il rituale della vestizione di un triatleta è diverso per ognuno di noi. Piccoli gesti, forse maniacali, scaramantici. Anche se non sono i tuoi li riconosci subito. Quelle piccole cose che ti danno sicurezza, l’idea di potercela fare perchè hai fatto quella cosa in quel modo lì, come piace a te.
Ho la cuffia viola. Ci chiamano. Si va. Ora o mai più mi dico. Un respiro grande così e mi incammino insieme agli altri verso la partenza.
Si entra in acqua dal pontile ma la marea è bassa, ci dicono di tuffarci di testa. E così faccio.
Sono tranquillo, il nuoto non mi ha mai preoccupato più di tanto. Parto al mio ritmo e vado stabile, senza accelerazioni, senza mai cedere il passo. Il percorso è tutto dritto, non si può sbagliare.
Mentalmente decido di guardare l’orologio ogni venti minuti. Alla prima occhiata segna 19’35”. Tutto fila liscio. “Quando le aspettative corrispondono alla realtà vuol dire che stai bene” mi dico. Nella testa una canzona degli Aerosmith di vent’anni fa. Chissà come mi è venuta.
Continuo, stabile. Bracciata dopo bracciata, decido che è ora di riguardare l’orologio. 40’12”. Sembra tutto finto. Un sogno, una magia. L’acqua è torbida, non si vede niente. Ma è calma, tranquilla. Quello che provo dentro corrisponde a quello che c’è fuori. Avanti così.
Intorno a me tutto il gruppo con il quale ero partito, a parte qualche squalo che ne aveva e ci ha lasciati indietro. Non penso troppo alla prestazione, adesso penso solo a stare bene. È già ora di riguardare l’orologio, la terraferma è vicina. 1 ora e 5′. Manca poco, prima di partire nella mia testa c’era 1 ora e 15′ come risultato nel nuoto.
Ma gli ultimi 200 metri mettono in difficoltà tutti. Pochi centimetri d’acqua, la marea è bassissima. Sotto c’è solo fango, nero, denso. Non è il paradiso dei nuotatori questo.
Esco velocemente e vedo una doccia. È quello che mi serve per togliermi l’acqua della laguna di dosso. Sto bene, sorrido a tutti, sono carico.
Vado a recuperare la mia bici! Me la prendo comoda anche in zona cambio. Penso a tutto, se c’è tutto, cosa mi servirà nei 180 km (centottanta, che Dio mi aiuti) che affronterò in bici.
Il percorso è un anello di circa 45 km da ripetere tre volte, raggiungibile con un raccordino di una ventina di km. Nessuna difficoltà, nessuna altimetria da guardare. Un piattone, come si dice in gergo.
Il clima è buono per pedalare, le nuvole coprono il sole caldo che farà capolino qualche ora dopo. Rimango concentrato. Anche qui, nella testa, ho il mio obiettivo. Sei ore. Voglio metterci sei ore, voglio metterci sei ore è il mantra che mi gira in testa. Torna la canzone degli Aerosmith. Sempre lei, quella di vent’anni fa.
Bevo molto, e mangio il più possibile. Ma in una gara così ti devi accontentare di barrette e gel. Ci vorrebbe un piatto di pasta, altrochè.
Qui in alternativa hanno provveduto con panini al prosciutto. Ne afferro uno al volo e ha il sapore della miglior cena che io abbia mai mangiato. Quando hai fame e non mangi da ore, tutto diventa più buono.
Tengo botta, sono in media, i giri vanno via che è un piacere. Intorno al centocinquantesimo km si accende una spia. Improvvisamente. Grossa così. Con scritto sopra “chi cazzo te l’ha fatto fare, perchè sei qui?”
Rido da solo, il sole splende, chissenefrega. Vado verso il raccordino che mi riporterà in zona cambio per l’ultima frazione: la Maratona.
Che già dire Maratona uno va in panico. Figuriamoci dopo 4 km di nuoto e 180 in bici. Ma non ci penso.
Scarpe ai piedi, riparto, come se niente fosse. Cinque giri da 8 km. Cinque. Alienante. Ovviamente il ritmo è molto lento, ma faccio i primi 10 km senza soffrire troppo.
Ed è qui che iniziano i problemi. Quelli veri. L’interruttore principale si spegne. OFF. Mi si chiudono gli occhi. Ho sonno. Potrei addormentarmi camminando. Nel giro di qualche minuto perdo completamente la testa. Cammino, e non riesco nemmeno ad andare dritto. Barcollo, senza un briciolo di energia, letteralmente. Il desiderio di fermarsi e piantar lì tutto è forte, fortissimo.
Sul percorso Lucrezia, il mitico IronFrankie, sua moglie Carla, Francesca, Pierluigi mi spronano. E capiscono che ho bisogno di aiuto. Lucrezia mi rivede e mi porta due pezzi di grana. Mangio. Avevo bisogno di mangiare!
Nel frattempo ho buttato 6 km. Sono al sedicesimo. È ancora lunga, ma almeno posso ricominciare a correre. La stanchezza è comunque tanta. Fa caldo. Il sole picchia forte. Stringo i denti, continuo.
Nei momenti di lucidità, sempre più rari, ancora quella canzone, che ritorna a farmi compagnia. Passano altri 10 km, sono al ventiseiesimo. Sul percorso gli organizzatori hanno installato delle docce volanti, per permettere ai partecipanti di rinfrescarsi un po’.
Vado deciso sotto la doccia, una sensazione di sollievo incredibile. Respiro. Ancora non so che questo è l’errore più grande di tutta la gara.
Quando riparto scarpe, calze e piedi sono fradici. Cic, ciac, cic, ciac. Mi maledico da solo. Perchè so già come andrà a finire. Tento di correre ai ripari. Mi fermo, tolgo le calze, le strizzo. le rimetto. Riparto. Cic, ciac, cic, ciac. Non passa troppo tempo e arriva il momento di fare i conti con le cazzate che si fanno. Vesciche.
Le sento ovunque, su ogni dito, sotto la pianta. Mi viene da piangere. Perchè mi chiedo, perchèè?!
Insieme a me Vincenzo e il compagno di squadra Giorgio. Chiacchieriamo un po’, e il dolore ai piedi aumenta. Non possiamo fare altro che camminare. E Giorgio ha ancora un altro giro da fare.
I km sono infiniti, non passano mai. Mai. Ma ormai è andata. Siamo arrivati fino a qui e il traguardo non ce lo toglie nessuno. La soddisfazione e la consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande, qualcosa che ti porterai nel cuore sempre, comunque vadano le cose.
A pochi metri dal traguardo, poco prima della passerella finale li ritrovo tutti tra baci, abbracci, sorrisi. Sono tutti lì, per me. Nella mia testa anche le mie figlie, che sono lontane ma che mi hanno preparato un sacco di disegni e biglietti.
Frankie vuole tagliare il traguardo insieme a me. Aveva promesso che sarebbe venuto apposta, e così ha fatto. “Sei come un padre che porta in braccio un figlio” gli dico. Hahaha, si fa una risata, e andiamo insieme al traguardo.
Ce l’ho fatta. Taglio il traguardo, le braccia al cielo. Voglio la medaglia. Voglio qualcosa che tutti i giorni mi dica “Tu hai fatto questa cosa”.
A differenza di altre gare qui non piango, non mi commuovo. L’adrenalina è troppo forte, mica se ne va.
Solo stamattina, due giorni dopo, mi accorgo che avevo ancora tutto dentro.
Questa non è solo la storia di una gara. È soprattutto la storia di un riscatto, una rivincita che ho atteso da tanto, troppo tempo. Che mi ha liberato. Che mi ha salvato.
Da oggi niente sarà più come prima. Perchè quando passi quella porta – il traguardo – dopo 14 ore di gara, non si torna più indietro.