That’s Spartans, What’s else? (part II)

Dal Blog di Giulia:

Tre giorni fa ero in macchina e sorridevo. Cantavo la musica che usciva dalla radio. Guardavo il verde intorno.

La strada è libera, corro veloce nel silenzio, ho caldo, ma l’aria condizionata mi fa venire il mal di testa. Sorrido.

Faccio un paio di telefonate, due amici. Loro mi ascoltano raccontare, attenti e curiosi. Io parlo, ma non riesco ad esprimere le mie emozioni, la parole si limitano a codificarle e non funziona.

Sabato mattina parto da Chieti con uno zaino, in bici. Arrivo a Pescara, sbaglio strada tre volte, arrivo in albergo, sbaglio albergo, una volta sola. Mi faccio una doccia, metto il costume nello zaino e vado alla partenza. Dieci chilometri, vento a favore e sento l’eccitazione che sale.

La mia squadra è li, mi aspettano, mi abbracciano. Una famiglia. Nuotiamo insieme, Matteo, Luca ed io. Gianmarco ci fotografa dalla riva. L’acqua è olio e sabbia, ci sono le onde alte. Sono senza muta ma non ho freddo. Più che altro non vedo dove vado e la corrente è forte. Mi piace.

Entro in zona cambio con Giacomo e non smettiamo di ridere un secondo. La nostra Prima volta. Incontriamo qualche difficoltà e cerchiamo soluzioni. Guardiamo gli altri e copiamo, spudoratamente. Non ci peritiamo a chiedere informazioni, un ragazzo in due minuti è più esaustivo del briefing.

A cena siamo tutti felici, qualcuno è pensieroso, si distrae, ma poi sorride. Come me. Abbiamo tutti un obiettivo individuale da raggiungere, un traguardo da conquistare. Rompere i limiti, farlo da soli. Le tue gambe, braccia, polmoni, cuore e testa.

La notte in quel lettino singolo sembra non voler passare, il buio mi riempie gli occhi. Mi perdo nei pensieri e così devo essermi addormentata. Quando apro gli occhi la camera è immersa nella luce, sono le sei. Il vento soffia rabbioso, nuvole lontane minacciano il sole. Sono serena, se deve essere un’Ironman che lo sia fino in fondo. Colazione. Attesa.

Siamo tutti pigiati l’uno sull’altro, caschi in testa e tacchette ai piedi, sono tutti così alti e non riesco a vedere i nuotatori che escono dall’acqua. Mi concentro sulle cuffie arancioni e sugli occhi di Francesca. La vedo, ma lei non vede me. Grida il mio nome, io il suo. Per un attimo ci guardo da fuori e capisco. Mi faccio spazio e le corro incontro. È molto stanca, ha dato tutto. Le faccio una carezza e corro alla bici.

Passata la linea del via salgo in sella e comincio a pedalare. Tengo a mente le regole, niente scia e sorpassi in 30 secondi. Corro per la squadra, non prenderò nessun cartellino giallo. Il vento si sente, non è a favore, ma so che girerà e rientrare sarà faticoso.

La mia prima vera gara. Devo gestirmi, chilometro dopo chilometro, cibo, acqua. Sono sola e la bici vola. I primi chilometri sono piani e cerco di riscaldare le gambe con pazienza. Tre salite mi aspettano, impegnative. Mi concentro sulla strada, ripeto il percorso nella mente, ogni curva, strappo, dente, discesa. Il mio obiettivo è chiudere il percorso in tre ore e mezzo.

Comincia a piovere. La pioggia estiva, a secchiate, in pochi minuti sono tutta fradicia, fin dentro le scarpe. Il vento ora è freddo. La salita è meno dura di quanto ricordassi, pedalo agile e lascio il cuore calmo. Dopo la seconda salita, dieci chilometri tra pianura e discesa. L’asfalto è bagnato, rotto, ma la bici si lascia guidare e non tocco i freni.

Sono veloce, sono potente, mi sento bellissima. Le persone intorno mi acclamano, mi chiamano Ironman e dicono “brava”. Esplodo. Le lacrime cominciano a scendere lungo le guance, gli occhi si appannano, sorrido, rido. Mi sembra incredibile. Realizzo che sto partecipando ad un Ironman. Ora sta grandinando. È perfetto. Incito gli atleti che raggiungo e sorpasso e chi sorpassa me mi dice di non mollare. Devono spararmi perch’io mi fermi.

Sorrido, sono felice. Mi sento libera di essere me, senza pensieri, senza dover giustificare le mie scelte, senza dover prendere decisioni. Essere e basta.

Il rientro è decisivo. Quindici chilometri contro il vento che grida dal mare. Sono sulla statale, sola, non ho nessuno davanti e da dietro non mi raggiunge nessun rumore. Il vento è forte. Mancano sette chilometri e capisco che se stringo un paio di denti posso tagliare a tre ore e mezzo.

Cambio veloce, metto le mani in basso e mi piego sul telaio. Respiro male, il ginocchio oramai è in fiamme, ho i crampi ai piedi, ho sete e mi viene da vomitare. Non ascolto nulla. Sei chilometri, cinque, quattro. Manca poco. Barbara mi aspetta. Controllo se ho ancora il chip al piede. Tre, due chilometri. Entro in città. Ultimo chilometro. Mi viene da piangere. Dolore, felicità, non capisco nulla. Rettilineo finale, mi sposto sulla sinistra e supero tutti. Tutti. Non so se sto piangendo ancora. Le persone applaudono e mi sorridono. Sto ridendo e sono tutta un sale. È straordinario.

Scendo dalla bici e comincio a correre. La lascio al suo posto e continuo a correre verso Barbara. La vedo. Sorrido, o almeno credo. Lei prende il chip ed io le infilo il pettorale. Una volontaria mi dice di uscire in fondo a sinistra io faccio tre passi e mi accascio a terra.

Tre ore e ventisei minuti.

Ho bisogno di due minuti. Maurizio e Daniele vengono ad abbracciarmi e mi aiutano ad alzarmi. Mi sento piena di luce. Felicità pura, che dipende unicamente da te. Totale. La mente e il corpo che si amano.

Aspetto Giacomo. Ci stringiamo come due guerrieri che hanno vinto la loro battaglia. Poter condividere una gioia così grande, la moltiplica.

Guardo al futuro, ai miei traguardi. Ora sono reali, concreti, raggiungibili. Faccio la doccia e torno a casa.